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Data di pubblicazione: 26 giugno 2024
Data di riferimento: 26 giugno 2024

27548

Penale
Cassazione

In tema di oltraggio a pubblico ufficiale un'espressione intrinsecamente offensiva, anche se di uso corrente nel linguaggio moderno, ha una valenza obiettivamente denigratoria e minatoria, e non perde il carattere di antigiuridicità quando è pronunciata in circostanze che, esulando dai limiti della critica anche accesa, siano tali da incidere in senso negativo sul consenso che il pubblico ufficiale deve avere nella società.

 

Corte di Cassazione, sentenza del 26 giugno 2023, n. 27548

 

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUINTA SEZIONE PENALE

 

ha pronunciato la seguente

Sentenza

 

Ritenuto in fatto

 1. Viene in esame la sentenza della Corte d'Appello di Salerno, che, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Salerno del 14.1.2022, ha escluso la circostanza aggravante della recidiva semplice, rideterminando la pena finale inflitta nei confronti di - omissis - in mesi 8 e giorni 20 di reclusione, in relazione ai reati di cui all'art. 341-bis cod. pen. ed all'art. 496 cod. pen.

L'imputata è accusata di aver offeso l'onore e il decoro di due assistenti della Polizia di Stato, intervenuti per far spostare la sua auto da un parcheggio in area non consentita, pronunciando al loro indirizzo, all'interno di un bar, la frase: "che cazzo volete...? Andate a prendere i delinquenti anziché rompere i coglioni mentre lavoro", declinando loro, altresì, false generalità dicendo di chiamarsi - omissis - e non - omissis -.

 2. Avverso il provvedimento in esame ha proposto ricorso l'imputata, tramite il difensore di fiducia, deducendo quattro motivi di censura.

 2.1. Il primo argomento difensivo eccepisce violazione dell'art. 161, comma quarto, cod. pen. perchè il decreto di citazione a giudizio sarebbe stato notificato all'imputato risultato "sconosciuto" all'indirizzo dichiarato, ai sensi della predetta disposizione, senza un nuovo tentativo di notifica ex art. 170 cod. proc. pen.; in tal modo si è dato luogo ad una nullità assoluta dell'atto di vocatio in ius come affermato da Sez. 2, n. 57801 del 29/11/2018, Nita Florentin, Rv. 274892.

 La Corte d'Appello ha omesso di notificare al difensore il decreto di citazione successivamente ad una notifica non andata a buon fine.

 2.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione di legge nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato in ordine all'affermazione di responsabilità della ricorrente per il delitto di false dichiarazioni sull'identità personale.

 La tesi difensiva è che la ricorrente abbia declinato il nome "- omissis -" piuttosto che quello reale di "- omissis -" solo perché da sempre preferisce la prima versione del suo nome, ancorchè non corrispondente a quella anagrafica, senza alcuna volontà di riferire generalità false agli agenti di polizia; tanto più insussistente sarebbe il reato se si pensa che, al momento delle dichiarazioni incriminate, era presente anche lo stesso difensore, il quale aveva rappresentato lui stesso alla polizia il nome corretto della sua assistita, e che le generalità esatte erano già note agli operanti che avevano proceduto a redigere il verbale di perquisizione dell'imputata ed avevano operato il controllo amministrativo dei dati della sua assunzione presso il bar teatro dei fatti. Pertanto, non vi era alcuna ragione di declinare false generalità.

 2.3. Il terzo argomento eccepito denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza d'appello quanto all'affermazione di responsabilità per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, per mancanza di valenza offensiva delle espressioni pronunciate all'indirizzo degli operatori di polizia.

 2.4. La quarta censura denuncia violazione di legge e vizio di motivazione omessa o manifestamente illogica in relazione al mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità della particolare tenuità del fatto nonostante la minima offensività della condotta della ricorrente.

 

3. Il PG ha concluso con requisitoria scritta per l'inammissibilità del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è inammissibile.

 

2. Il primo motivo è inammissibile.

 La prospettazione difensiva sconta, anzitutto, una diffusa genericità: non si comprende esattamente se il ricorrente lamenti il difetto di notifica del decreto di citazione a giudizio in primo grado o in appello, visto che, successivamente all'enunciazione del motivo sulla nullità assoluta per l'errata notifica ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen. della vocatio in ius in primo grado, il ricorso evoca una omessa notifica del decreto di citazione in appello del difensore, tuttavia in modo del tutto vago e privo di dettagli.

 

La censura è anche manifestamente infondata.

 Le Sezioni Unite hanno evidenziato che la mancata notifica a mezzo posta per irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato, eletto o determinato per legge, attestata dall'addetto al servizio postale, comporta, a norma dell'art. 170 cod. proc. pen., senza necessità di ulteriori adempimenti, la consegna dell'atto al difensore ex art. 161, comma 4, cod. proc. pen., salvo che l'imputato, per caso fortuito o forza maggiore, non sia stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato od eletto, dovendosi, in tal caso, applicare le disposizioni degli artt. 157 e 159 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 14573 del 25/11/2021, dep. 2022, D., Rv. 282848). -bis

 Si è superato, così, l'orientamento interpretativo evocato dal ricorso, secondo cui sarebbe affetta da nullità assoluta la notificazione eseguita mediante consegna al difensore, ai sensi dell'art. 161, comma 4, cod. proc. pen., nel caso in cui, accertata dall'addetto al servizio postale l'irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato o eletto, non si sia attivata la notifica con le modalità ordinarie ai sensi dell'art. 170, comma 3. cod. proc. pen. (cfr., per la tesi oramai superata, Sez. 2, n. 57801 del 29/11/2018, Nita Florentin, Rv. 274892).

 Nel caso di specie, peraltro, il difensore di fiducia era presente all'udienza davanti alla Corte d'Appello e non risulta che abbia eccepito alcunchè in merito alla irregolarità della notifica all'imputato, né alla omessa notifica di cui si duole con il motivo di ricorso.

 

3. Il secondo ed il terzo motivo di censura sono inammissibili perché manifestamente infondati.

 3.1. La ricorrente, a dispetto della formale intestazione delle deduzioni, chiede, quanto alla sussistenza del delitto di cui all'art. 496 cod. pen., una rivalutazione in fatto, non consentita in sede di legittimità (cfr., tra le molte pronunce in tal senso, Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482), delle circostanze nel corso delle quali ella ha riferito le false generalità al personale della Polizia, intervenuto sul posto per un controllo alla sua autovettura in sosta; si adduce, in particolare, la buona fede nel riferire un nome non corrispondente ai suoi dati anagrafici, infatti molto simile a quello reale e quasi un vezzeggiativo più gradito.

 

In sostanza, sembra che si evochi quanto meno la mancanza di dolo del reato.

 Tuttavia, ai fini della sussistenza del delitto di false dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri, è sufficiente il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di rendere dichiarazioni difformi dal vero su qualità personali giuridicamente rilevanti, mentre non occorre il dolo specifico di trarre in inganno il destinatario della dichiarazione o altri soggetti (Sez. 1, n. 7376 del 24/3/1980, Gangitano, Rv. 145590).

 Nel caso di specie, il ricorso addirittura ammette esplicitamente che l'imputata abbia avuto consapevolezza di fornire un nominativo falso e non corrispondente, seppure di poco diverso, da quello reale; la sentenza, poi, dà atto di un evidente indicatore della declinazione falsa, volontariamente diretta a confondere chi stava redigendo il verbale di violazione del codice della strada per il parcheggio pericoloso della sua autovettura: l'imputata, invero, nel mentre ha reso la dichiarazione falsa ha anche riferito un ulteriore dato non corrispondente al vero, vale a dire il non avere con sé i documenti di identità

(invece esibiti subito dopo, all'arrivo del suo difensore e di una seconda pattuglia della Polizia stradale).

 

Da tale ultima osservazione deriva anche la genericità del motivo di ricorso.

 

3.2. Con riguardo al delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, poi, il ricorso è manifestamente infondato.

 Le parole rivolte ai due assistenti della Polizia di Stato, C. C. e D. D., sono tali da rientrare nell'oggettiva tipicità del reato di cui all'art. 341-bis cod. pen.; la ricorrente si è espressa nei loro confronti con espressioni volgari di insofferenza ("ma che cazzo volete?!., ma non rompetemi i coglioni.."), sicuramente idonee, per il contesto ed i luoghi nei quali sono state pronunciate (all'interno di un bar e alla presenza di più persone avventori), a ledere l'onore ed il prestigio dei due assistenti della Polizia di Stato, i quali erano in divisa e nell'esercizio delle loro funzioni (la stavano invitando a spostare immediatamente l'auto che era parcheggiata nei pressi del bar in modo pericoloso per la viabilità).

 Ed infatti, dal punto di vista dell'oggettiva carica offensiva delle frasi pronunciate contro gli operanti di polizia, le espressioni già richiamate integrano senza dubbio, per le circostanze nelle quali sono state pronunciate, quelle parole di insofferenza volgare ed astiosa che, pur frequenti oramai nell'uso comune, sono tali da incidere in senso negativo sul consenso e la credibilità che il pubblico ufficiale si riconosce debba avere nella società; esigenza che costituisce l'in se della ratio incriminatrice.

 Si ribadisce che, in tema di oltraggio a pubblico ufficiale un'espressione intrinsecamente offensiva, anche se di uso corrente nel linguaggio moderno, ha una valenza obiettivamente denigratoria e minatoria, e non perde il carattere di antigiuridicità quando è pronunciata in circostanze che, esulando dai limiti della critica anche accesa, siano tali da incidere in senso negativo sul consenso che il pubblico ufficiale deve avere nella società (Sez. 6, n. 51613 del 8/11/2016, Ene, Rv. 268358, in una fattispecie molto simile in cui la Cassazione ha ritenuto immune da censure la sentenza di condanna di chi, nel corso dell'intervento dei Carabinieri all'interno di un locale, a seguito di una lite tra gli avventori, aveva rivolto agli operanti la frase "io vado dove voglio, vaffanculo"; vedi anche, tra le altre, Sez. 6, n. 1298 del 29/9/1997, dep. 1998, Carbone, Rv. 210841).

 Inoltre, ancora dal punto di vista oggettivo, ricorrono gli elementi di tipicità ulteriori richiesti dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'offesa all'onore ed al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire alla presenza di almeno due persone, tra le quali non possono computarsi quei soggetti che, pur non direttamente attinti dall'offesa, assistano alla stessa nello svolgimento delle loro funzioni, essendo integrato il requisito della pluralità di persone unicamente da persone estranee alla pubblica amministrazione (ossia dai "civili"), ovvero da persone che, pur rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, siano presenti in quel determinato contesto spazio-temporale, non per lo stesso motivo d'ufficio in relazione al quale la condotta oltraggiosa sia posta in essere dall'agente (Sez. 6, n. 6604 del 18/1/2022, Pagliari, Rv. 282999; vedi anche Sez. 6, n. 30136 del 9/6/2021, Leocata, Rv. 281838).

 Si è già evidenziato, in proposito, che erano presenti alla condotta contestata più avventori del bar, oltre agli operanti di polizia giudiziaria.

 4. Infine, anche l'ultimo motivo di ricorso, dedicato a contestare il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen., è manifestamente infondato, poiché la sentenza d'appello ha motivato adeguatamente sul punto, richiamando l'atteggiamento complessivo "gravemente" oltraggioso e quindi - si dice - di per sé, non di particolare tenuità, tenuto anche conto del contesto di semplice richiesta rivoltale dagli operatori di polizia giudiziaria di spostare l'auto parcheggiata in modo pericoloso per la viabilità, nonché delle modalità della condotta dell'imputata anche nel commettere il reato di cui all'art. 496 cod. pen.

 5. Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente che lo ha proposto al pagamento delle spese processuali nonché, ravvisandosi profili di colpa relativi alla causa di inammissibilità (cfr. sul punto Corte Cost. n. 186 del 2000), al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro 3.000.

 

Per questi motivi

 Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

 

Così deciso il 3 aprile 2023. 

 

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2023.

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